Intervista a Francesca Nava, autrice de “Il focolaio. Da Bergamo al contagio nazionale” e finalista della 57^ edizione
Il 23 febbraio 2020 è la data del peccato originale e da cerchio rosso sul calendario per Alzano Lombardo e Nembro. Che cosa è successo?
“Quel giorno vengono diagnosticati i primi casi covid nella bergamasca: sono due pazienti ricoverati già da giorni all’ospedale di Alzano Lombardo. Un terzo è in attesa di tampone al pronto soccorso. Verso le 13 l’ospedale viene transennato e le visite sospese, nessuno entra e nessuno esce. Eppure, dopo poche ore arriva l’ordine da Regione Lombardia di riaprire tutto, ma reparti e pronto soccorso non vengono sanificati. Non solo, il personale sanitario e i famigliari vengono mandati a casa senza nessun tracciamento, né obbligo di quarantena. Nessuno avvisa la popolazione del rischio di contagio. Il giorno dopo l’ospedale è di nuovo aperto e operativo, senza percorsi differenziati. Ed è così che scoppia una vera bomba epidemiologica. Oggi sappiamo che all’ospedale di Alzano, il 23 febbraio, c’erano già 44 dipendenti infetti, quasi il 10%, molti dei quali residenti proprio nei comuni di Alzano e di Nembro”.
Due giorni prima, il 21 febbraio a Codogno, l’Italia scopriva il primo paziente affetto da Covid-19. Ma l’atteggiamento delle autorità sanitarie, in quel caso, è stato molto diverso dalla Val Seriana. Come mai?
“Quello che avviene a Codogno (in Lombardia) e all’ospedale di Schiavonia (in Veneto) il 21 febbraio è cruciale per capire questa storia. Il pronto soccorso di Codogno, dove transita il paziente 1, viene sanificato e resta chiuso per 105 giorni. Contemporaneamente, l’ospedale di Schiavonia, in provincia di Padova – dove muore il primo paziente covid italiano residente a Vo’ Euganeo – viene svuotato, sanificato e 700 persone sottoposte a tampone. L’area intorno a Codogno e a Vo’ diventa subito zona rossa. Il focolaio viene spento. All’ospedale di Alzano, invece, viene fatto l’esatto opposto. In Val Seriana l’ordine è di contenere il panico e non il virus. In quei giorni di fine febbraio si moltiplicano gli appelli alla normalità: “Bergamo non si ferma”. La culla industriale della Lombardia deve continuare a produrre. Risultato: nella bergamasca – a partire dal focolaio di un’area popolata da 25 mila abitanti (Alzano e Nembro), lasciata aperta per due settimane e poi chiusa in una zona arancione, con le fabbriche aperte e decine di migliaia di lavoratori liberi di circolare – in due mesi muoiono di Covid oltre 6 mila persone. Bergamo batte il record: ha l’incremento di mortalità più alto al mondo, + 571%”.
Nel libro raccoglie tante testimonianze tra i sanitari in prima linea e tra i familiari delle vittime. Qual è la storia che dal punto di vista umano ha faticato di più a rielaborare? E dal punto di vista professionale?
“Ho scelto di raccontare quattro storie emblematiche di morti da Covid nella bergamasca. Tutte fondamentali per mettere a fuoco quelle che considero le reali criticità del sistema. Sono quelle di Claudio, Marisa, Manuel e Giuseppe: persone dai 40 agli 80 anni. Il racconto del loro calvario e di quello vissuto dai loro famigliari mi ha lacerato a tal punto da non farmi dormire la notte. Una di queste riguarda una parte della mia famiglia: è la storia di Manuel, 47 anni, padre di tre figli, infettatosi sul lavoro a inizio marzo. Morto nel giorno della Festa del Papà. L’ho scritta piangendo di rabbia”.
Più medicina del territorio è diventato un bel mantra ultimamente. Persino per chi 20 anni fa si è dato da fare per la sua disarticolazione.
“Vittorio Carreri, il padre della prevenzione in Lombardia negli anni ’80, mi ha detto: “la pandemia è stato come un enzima catalitico che ha fatto esplodere le contraddizioni del servizio sanitario regionale”. Ecco, queste contraddizioni sono ancora lì davanti ai nostri occhi: parità tra pubblico e privato (di diritti, ma non di doveri), eccellenza ospedalo-centrica, ma presidi sanitari territoriali ridotti all’osso. La sanità lombarda si regge sulla legge 23 del 2015, una riforma sperimentale scaduta a fine 2020. A partire dal 1997 la prevenzione è stata letteralmente dimezzata in Lombardia, prima da Formigoni e poi da Maroni. Il punto è che la prevenzione non fa rumore, non porta utili, ma soprattutto non crea consenso. Ecco perché nulla mi fa sperare che ci sarà un’inversione di rotta”.
Il suo libro-inchiesta ma anche il lavoro di un altro collega di Bergamo, Isaia Invernizzi, sulla potenza dell’analisi data-driven nella cronaca della pandemia dimostrano che il giornalismo può fare bene il suo mestiere quando nei territori rimane, dialoga, racconta. Si può parlare, secondo lei, della rivincita del giornalismo del territorio, dei cronisti e dei fogli locali contro l’informazione (apolide) delle grandi concentrazioni editoriali?
“Non la metterei così. Direi invece che l’informazione espleta la sua più nobile funzione quando mette a nudo le ragioni profonde di una crisi del sistema. Serve da monito e da lezione per non commettere mai più gli stessi errori. Se la politica è sorda, non lo siano i cittadini. Questo faro sull’opinione pubblica lo possono accendere tutti i bravi giornalisti, locali e nazionali”.